lunedì 12 dicembre 2016

La ragazza del treno

La ragazza del treno
Titolo originaleThe Girl on the Train
AutorePaula Hawkins
1ª ed. originale2015
1ª ed. italiana2015
Generegiallo, thriller
Lingua originaleinglese
AmbientazioneLondra


Di solito sono molto scettica riguardo ai best seller, ho sempre questo pregiudizio per cui il loro successo sia immeritato e sostanzialmente dovuto a una botta di culo. Invece mi devo ricredere per questo romanzo, perché mi ha davvero tenuta incollata alle pagine - o forse dovrei dire agli auricolari ;) - come non succedeva da un po’.
Il romanzo è sostanzialmente un thriller/giallo, anche se non mancano le tragedie sentimentali della protagonista, ma sono solo di contorno. Paradossalmente però pur non costituendo il fulcro del romanzo, ne costituiscono la forza perché creano una forte immedesimazione nel personaggio rendendolo molto reale.
Mi spiego meglio.
Nel poliziesco classico l’investigatore è un tizio di cui non ci frega più di tanto, non è altro che uno strumento nelle mani dell’autore atto a dipanare la matassa. Anzi spesso lui arriva alla soluzione prima che noi ci abbiamo capito una beata mazza, mentre costui sa già tutto e non ce lo dice (penso ad esempio a Poirot, ma anche al più recente e nostrano Montalbano). Rachel no. Lei investiga con noi. Siamo con lei quando cerca di ricordare quello che cavolo è successo quella sera di cui ha solo ricordi confusi. Siamo proprio nella sua testa. Questa percezione è aiutata dalla tecnica usata dal Hawkins, molto efficace in questo contesto: prima persona, tempo presente. Siamo proprio “in diretta” nella sua testa. Scelta azzeccatissima.
Prima ho accennato al fatto che solitamente dell’investigatore non ci frega un tubo, ma di Rachel invece ci importa perché non solo siamo nella sua testa, ma sappiamo quello che sta passando. Se non ci fosse il mistero, potrebbe essere tranquillamente un romanzo di formazione: una donna con problemi di alcolismo, che a causa di questo si è rovinata la vita, ha distrutto la sua felicità e vive costantemente nel passato, nel ricordo di ciò che non ha più e, ormai isolata dalla realtà, vive per procura l’amore immaginario di un’altra coppia. Ci si appassiona ai suoi problemi di vita e relazionali prima ancora che al mistero, ci spiace per lei, per come si è ridotta, vogliamo che si riscatti, che riprenda in mano la sua vita, che smetta di bere.
E come in tutti i romanzi di formazione che si rispettino, accade un evento esterno che le fa capire che è il momento di crescere, di andare avanti; avviene un cambiamento e il protagonista alla fine della storia non è più lo stesso.
Ma in questo caso il movente esterno è un giallo, un mistero.
Un mix di generi potrei dire, davvero ben riuscito.
Per creare suspense/mistero la Hawkins usa il cliché della perdita di memoria. Un escamotage non molto originale, questo ve lo concedo, ma almeno ha un motivo per essere lì, non è la solita perdita della memoria dovuta a un trauma o che so io, diciamo che il suo essere smemorata fa quasi parte di lei, della sua personalità, perché dovuto al suo alcolismo. Non è un fatto ad minchiam piovuto dal cielo, che ha la stessa probabilità di accadere quanta ne abbiamo di morire colpiti da un asteroide, ma per lei è una condizione quasi “normale”: sono più le cose che si dimentica che quelle che si ricorda.

Proprio in questi giorni è uscita la trasposizione cinematografica, già prima che ne annunciassero l’uscita io avevo dei seri dubbi sul fatto che il film potesse “rendere” quanto il libro. Secondo me si ridurrà a qualcosa di banalotto, e chi non ha letto il libro non capirà come mai tanto entusiasmo a riguardo. Intendiamoci, non che il libro sia chissà quale capolavoro, ma togliendo la caratteristica primaria del libro, che è la narrazione in prima persona, la simbiosi con la testa della protagonista, temo si toglierà anche molto al pathos della storia stessa. Vedremo…

domenica 15 maggio 2016

Una domanda provocatoria...

Cosa intendete con libri di "qualità"?

Il fatto è che mi sembra che si faccia tutto un gran parlare di questa presunta qualità di un'opera, ma in pratica cosa sarebbe? Ovunque si sproloquia di romanzi, di come farsi pubblicare, delle vendite, dell'impegno, del cuore che ci ho messo... Be', ma averci messo dell'impegno, passione e persino aver applicato regole grammaticali e narrative non garantisce qualità. Io posso averci messo tutto il buon impegno e onestà di questo mondo ed aver comunque partorito una schifezza.
Critichiamo tanto le CE che seguirebbero solo ed esclusivamente becere logiche commerciali (non dico di no, eh!), ma chi è DAVVERO in grado di VALUTARE la qualità oggettiva di un'opera?
Mi pare che si discuta un po' troppo poco di questo. Raramente trovo blog che si interpellano, si arrovellano, cercano di capire cosa sia davvero la critica, su cosa si basi, su quali siano gli elementi fondanti per capire se un libro è buono oppure no.
Secondo me questa invece è PROPRIO LA BASE! Se non si costruisce dapprima una critica forte, come si può giudicare cosa sia meritevole e cosa no? In base ai gusti? Allora hanno ragione le CE: se vende vuol dire che piace, e se piace vuol dire che è bello. Dopotutto i numeri di vendita sono un criterio più che OGGETTIVO.
Molti lettori, con presunzione, sono convinti che basti aver letto molto per per passare automaticamente al rango di critici letterari. Leggere molto, così come metterci il cuore, mi spiace ma non basta. Occorre una conoscenza molto più approfondita della letteratura e delle dinamiche narrative per potersi ergere a giudici. 
Tempo fa lessi un articolo in cui si sosteneva che la critica è sempre e comunque soggettiva. Interessante punto di vista… Quindi la critica davvero oggettiva sarebbe impossibile? Al massimo possiamo aspirare ad un'ampia condivisione di criteri di giudizio?
Penso al Manifesto Futurista o altri circoli letterari simili del passato: c'erano delle linee guida che si prefiggevano gli aderenti al movimento; gli artisti di vario genere, aderendo al movimento, con le loro opere esprimevano un concetto, uno stile di vita, un nuovo modo di rappresentare e di interpretare la realtà. C'era un senso, c'erano dei criteri...
Ora invece prevalgono due filoni di pensiero: chi trova che i libri abbiano senso solo se "faticosi", solo se necessitano di grande concentrazione e impegno per essere letti, e chi, all'opposto, si annoia se deve pensare troppo, vuole una scrittura facile e scorrevole, ma soprattutto non giudica il libro in base a quanta fatica mentale, a quanto dispendio di ragionamento impiega, ma in base al sentire, in base a quante emozioni positive o negative suscita, se il libro "ti prende", ti coinvolge.
Chi può dire se uno sia migliore/più giusto dell'altro? Valutare adoperando solo criteri razionali è un metodo valido? Non sottovaluta forse le emozioni? Perché un'opera che suscita molte emozioni dovrebbe essere di minor valore di una più "cerebrale"? E viceversa le emozioni, in quanto irrazionali, non sono valutabili, quindi non si potrà mai giudicare il "valore emotivo" di un'opera? 
Gamberetta ai suoi tempi aveva provato a erigere regole di scrittura e giudicare in base ad esse; il problema secondo me è che quel metodo peccava un po' troppo di tecnicismo: valutava le opere solo in base alla tecnica di scrittura facendo scivolare in secondo piano tutto il resto, dando troppa rilevanza allo stile, a discapito dei contenuti.

Al giorno di oggi chi si interroga su ciò? I letterati dormono, i filosofi non esistono… In effetti dovrebbe essere proprio compito della filosofia determinare i criteri di giudizio della qualità (be', finalmente dopo decenni ho capito l'utilità/il senso di questa materia, che al liceo ho sempre trovato così oscura, senza fondamento e senza scopo; finalmente ora ne colgo le applicazioni "pratiche").
Voi vi interrogate? Voi che ne pensate? Sono possibili dei criteri di giudizio oggettivo? Voi ne usate alcuni? Quali? E' possibile sceglierne alcuni di ampia condivisione per poter creare una sorta di linea guida per gli aspiranti recensionisti?

Esbat, ovvero: "Per caso sei fan di Stephen King?"




Titolo:  Esbat
Autore:  Lara Manni
Editore:  Feltrinelli
Data:  04/06/2009
Pagine:  288
Lingua:  italiano










No perché non me ne ero accorta!
La fantomatica Lara Manni autrice di questo libro: qui potete vedere un suo selfie!! XD



Uhm...Qualcosa mi dice che questo non è il suo vero volto... Ma solo per il fatto di aver usato i Sims per creare il suo alter ego, merita la mia stima! Clap, clap, clap!

Infatti Lara Manni altri non è che un eteronimo di Loredana Lipperini, ovvero non semplice pseudonimo ma proprio alter ego della giornalista (uhm...che abbia sofferto di sdoppiamento di personalità?) che si è inventata questo personaggio ex novo.
Ma bando alle ciance, dicevo, che si nota giusto un pochino l’influenza di King (ma non tanto, eh!), non solo nello stile, che ammetto di aver copiato anch’io. Bisogna dargliene atto: il re ha ideato un modo di descrivere la psicologia dei personaggi, di entrargli nella testa, che non può non affascinare, tuttora sono fermamente convinta che sia il segreto del suo successo. Penso che in futuro sarà studiato come classico, e se non lo sarà, grave errore, perché credo che nessuno sia mai riuscito a rendere così vividi, così REALI i pensieri dei personaggi. Certo anche alcuni grandi del passato avevano tratteggiato in modo sublime la psicologia dei loro personaggi (Hugo, Flaubert), facendo comprendere perfettamente al lettore le intenzioni dei personaggi, cosa si agitava dentro di loro, cosa li spingeva all’azione. Ma King secondo me è andato oltre, è riuscito 1)a drammatizzare l’inconscio (spiegherò meglio cosa intendo in un altro articolo), 2) usando la terza persona limitata anziché un narratore onnisciente come si usava in passato, è riuscito ad entrare ancor più nella testa del personaggio, eliminando l’intermediazione del narratore, creando un filo diretto tra il personaggio e il lettore (non che abbia inventato lui questa tecnica, ma lui l’ha padroneggiata in modo sublime).
Bene, dopo questa sbrodolata a favore di King (manco mi pagasse! -_-), tornerei sul pezzo dicendo che capisco l’entusiasmo di Lara per il maestro, (d’altronde anche Ammaniti ne ha ricalcato lo stile ed è riuscito a farlo magistralmente, a livelli dell’originale) ma scopiazzare... ops, volevo dire, prendere spunto anche dal nome di una protagonista dei suoi libri mi pare un po’ troppo. L’acerrima nemica della nostra beniamina si fa chiamare/la chiamano Cris, esattamente come Chris Hargensen di Carrie! L’ho notato subito io, a me non la si fa!
Comunque, omaggi al re a parte, la scrittura è scorrevole, non ho notato errori degni di nota, a parte un paio di passaggi in cui cambia il POV un po’ repentinamente, tanto da confondere il lettore perché si crede stia parlando un determinato personaggio e invece ci si è spostati nella testa di un altro. Errori non gravissimi, la maggior parte dei lettori nemmeno li nota; e la maggior parte degli scrittori (soprattutto quelli che non appartengono alla tradizione americana, perché gli americani queste cose le studiano nelle scuole di scrittura creativa) proprio ne ignorano l’esistenza! (vedi Crotoneo, che scrive manuali di scrittura e non ha la più pallida idea di cosa sia la gestione del POV visto che la canna in continuazione nei suoi esempi)

I personaggi sono motivati nelle loro azioni (nel senso che hanno un motivo/uno scopo per essere lì, non fanno cose a caso solo per esigenza di trama) e coerenti: il demone folle non si trasforma in un cuoricino mieloso e cucciolottoso; è influenzato da lei, si “umanizza”, ok, ma fino a un certo punto, non come nella peggiore romance, dove da crudele&spietato assassino diventerebbe un orsacchiottone solo per amore di lei! Ma per favore!! DRIIIIN! Sveglia, il momento delle favole è finito, tornate nel mondo reale dove gli uomini non cambiano per voi perché sono innamorati, o almeno lo fanno per i primi 15 giorni al massimo poi tornano gli stronzi di prima, non temete!

La trama c’è, anche se più che horror, mah... il movente è più la storia d’amore. Be’, sì in effetti si vede che è una fanfiction, sembra proprio una fantasia adolescenziale: la ragazzina che sogna di incontrare il proprio idolo e che si innamori di lei (o qualcosa di simile)! Ehi Lore’ guarda che sei un po’ cresciutella per ste cose, bricconcella! Infatti chi è rimasto schifato da questo romanzo, suppongo sia più per questo motivo, ovvero che non ha apprezzato la storia, l’ha trovata adolescenziale/romanticosa, poco interessante insomma, più che a causa di spregi intrinsechi dell’opera stessa che a me non risulta abbia errori degni di nota. 

IN SINTESI: lo stile c’è, la caratterizzazione dei personaggi anche, la trama discreta anche se non trascendentale. Un buon libro. Non eccelso. Perché? Perché per essere fantasy non c’è sto gran tripudio di fantasia, è una fanfiction quindi si rifà comunque a personaggi inventati da altri. La trama ok ma non è intricata ai livelli di Shakespeare. E la caratterizzazione psicologica è buona ma comunque si rifà allo stile kinghiano, quindi non troppo originale, e poi in ogni caso, oltre allo stile in cui si descrive la psicologia dei personaggi, conta soprattutto quanto si riesce a entrare in profondità nelle motivazioni psicologiche, anche se lo si fa con un narratore onnisciente (quindi con una narrazione più distaccata e meno partecipata) come lo si faceva in passato.
Consigliato? Sì, a me è piaciuto, ma se le storie d’amore non vi bastano come motivazione per continuare la lettura, leggete altro. O prendetelo in prestito! ;)

sabato 14 maggio 2016

Frankenstein: è proprio lui il mostro!





AutoreMary Shelley
1ª ed. originale1818
GenereRomanzo
SottogenereGoticofantascienza,
drammatico
Lingua originaleinglese
AmbientazioneXVIII secolo[1]
ProtagonistiVictor Frankenstein
AntagonistiLa creatura


Stavolta parleremo di un classico (che credo non abbia bisogno di presentazioni perciò non mi dilungo sulla trama).
Spesso nella credenza popolare si fa confusione e si chiama erroneamente Frankenstein il mostro, mentre questo è il cognome del suo creatore, lo scienziato. Ma non è in fondo un errore perché tra i due il mostro è indubbiamente lui: Frankenstein il pezzo di merd lo scienziato.
Come avrete scaltramente intuito, non nutro una gran stima per il suddetto perché dall'inizio alla fine si comporta proprio come uno stronzo con la sua povera creatura, da lui battezzata simpaticamente e amorevolmente "mostro": lo schifa fin dall'inizio senza motivo, pur avendolo creato lui e, persino davanti alle sue suppliche, continua a chiamarlo abominio senza motivo poverino. Solo perché un po' bruttino... Sarai bello te! Avrei proprio voluto vederlo che figo, sempre chino sui libri, sarà stato sminchio e pure gobbo e sicuramente vestito in modo dozzinale.
Ora questo è un mio parere personale. Condivisibile o meno. Non mi importa. Non è questo il punto. Il punto è un altro: questo romanzo suscita EMOZIONI.
EMOZIONI VERE.
Cosa rara al giorno d'oggi. Lo so, sembra uno di quei discorsi: "non fanno più i romanzi di una volta..." Ma è proprio così: se si confrontano i romanzi del passato - soprattuto i classici - con quelli odierni, si noteranno subito alcune differenze, che riassumo in tre punti fondamentali (che sono poi quelli alla base della critica/recensione di un romanzo):

1. CARATTERIZZAZIONE DEI PERSONAGGI
2. TRAMA
3. STILE

1. Decisamente superiore alla media odierna. I miei sentimenti di antipatia verso il dr. Frankenstein sono genuini perché disapprovo completamente il suo comportamento, mentre, nonostante le cattive azioni,  non posso che provare compassione per il mostro. Certo magari qualcun altro farà l'opposto, giustificherà la reazione dello scienziato e giudicherà comunque un assassino spietato il mostro, nonostante le attenuanti. Come dicevo, non è questo il punto. Il fatto è che il carattere dei personaggi, la loro psicologia è così autentica che non può non suscitare vere emozioni, positive o negative che siano. Perché i personaggi hanno vere emozioni, veri sentimenti, si comportano in un certo modo per un motivo, hanno spessore, si intuiscono le motivazioni più o meno profonde che li spingono ad agire. Ma soprattutto, caratteristica fondamentale, sono AMBIGUI. Questa è una delle meraviglie della mente umana che sembra si sia dimenticata: gli essere umani sanno essere buoni&cattivi allo stesso tempo, spietati con alcuni e carini&coccolosi con altri. Prendiamo lo specismo: gente che si scioglie nel guardare cani e altri animali da compagnia non esiterebbe a sparare a sangue freddo a un bel cinghialotto da fare al forno; io stessa mangio la tenera e saporita carne dei maialini, ma dovessi mai ucciderne uno scoppierei in lacrime. Vedete? Siamo tutti insensati e pieni di contraddizioni.
Gli uomini e i "mostri" di Frankenstein non sono né buoni, né cattivi: lo scienziato si comporta in modo crudele con la sua creatura, eppure è la stessa persona amorevolissima con il prossimo e la sua famiglia; il "mostro" cerca solo amore e affetto, da tutti rifiutato, eppure riesce a uccidere con lo stesso impeto con cui cercava amore. Ma d'altronde odio/amore non sono le facce della stessa medaglia?
Non so, non voglio entrare in termini filosofici.
Il fatto è  che troppo spesso noto nei romanzi odierni, anche quelli che si definiscono di "letteratura" (riderei fino a domani), proprio questa inconsistenza dei personaggi. Non hanno una vera personalità sfaccettata: ci sono le macchiette (quelli buffi perché così devono essere), i buoni totali (quelli che comunque vada aiuteranno tutti), i cattivi per partito preso, eccc... Tutti si muovono per favorire la trama, senza una personalità e motivi propri, ma tutti affetti, di volta in volta, da buonismo, da sindrome di salvare il mondo, o al massimo da drammi adolescenziali; ecco, questo è il massimo dello spessore psicologico a cui si ambisce: il teen drama! -_- Se ciò è ancora più evidente nei romanzi di avventura, fantasy, ecc... Forse le cose migliorano leggermente nei romanzi di formazione, dove c'è un po' più di approfondimento psicologico, ma qui si pecca per il secondo punto...

2. La trama! Dov'è la trama? 
Credo che nei romanzi di formazione non esista. Forse per definizione, mi viene da pensare a questo punto. In questa tipologia di romanzi non accade nulla! O meglio, accadono cose, sì, ma un po' così, non c'è una vera trama.
La trama è quella cosa per cui si creano una concatenazione di eventi: ce l'avete presente Otello? "Con l'ignara complicità della moglie Emilia, Iago fa arrivare un prezioso fazzoletto di Desdemona tra le mani di Cassio, convincendo Otello (che osserva di nascosto su consiglio di Iago) del tradimento di Desdemona...." Questa è una macchinazione: le cose non accadono un po' così, a caso, ma sono tutte funzionali all'epilogo, c'è una concatenazione di eventi, che in quel preciso ordine, porta alla risoluzione finale. Nei romanzi mediocri attuali le cose potrebbero accadere in qualsiasi momento del romanzo, prima o dopo, non farebbe differenza, non c'è trama, ci sono cose che capitano. (non stupisce la cosa, visto che il 99,99% sono romanzi autobiografici e nella vita reale non c'è nessuna trama, ma le cose accadono appunto un po' così a cazzo)
In Frankenstein la trama c'è, anche se ne ho viste di migliori, ma almeno c'è una certa concatenazione di eventi, anche se sono più che altro scuse per le riflessioni psicologiche/morali/filosofiche. Più che altro trovo discutibile (oltre al modo in cui sono narrati, vedi punto seguente) la descrizione di certi dettagli ininfluenti, non solo all'evolversi della trama ma anche alla caratterizzazione psicologica dei personaggi, a discapito di altri che sarebbero stati più pregnanti. Come i dettagli della creazione, della costruzione del corpo, che in un romanzo di fantascienza non sarebbero dettagli superflui; mentre alcuni dettagli della "love story" di un marinaio della nave di Walton o dei protettori del mostro se ne potrebbe fare anche a meno, incisi inutili a mio parere (trattandosi di un romanzo di fantascienza, quindi in cui reputo più pregnanti i dettagli "scienza" rispetto a quelli "pettegolezzi")


3. Qui la nota dolente: lo stile classico FA CAGARE! Ma il buffo è che molti scrittorucoli da strapazzo quando vogliono darsi un tono scimmiottano i classici proprio nell'unico elemento in cui andrebbero rifuggiti come la peste: la tecnica di scrittura. Quella è pietosa: lenta, poco efficace, noiosa, dispersiva. Il contrario di come si scrive per accattivare il lettore.
Il lettore odierno vuole intrattenimento, vuole una lettura piacevole, non pedante e moralista. Ma non significa automaticamente che apprezzi di più i romanzi spazzatura, banali, superficiali e mal costruiti al romanzo ben fatto. Tutt'altro. Persino il pubblico più ingenuo, inesperto e meno esigente davanti a un buon film (ben costruito, strutturato con una bella trama) ha comunque un moto di piacere, apprezzamento e godimento. Il pubblico/lettore odia annoiarsi, quello sì. 
E' proprio questa la sfida: argomenti, trame, caratterizzazione dei personaggi fatte bene, di spessore, ma drammatizzati in modo accattivante, con una scrittura semplice e scorrevole.
Facile, no?
No, affatto! E' proprio per questo che ci sono così pochi bravi scrittori.
La Shelley usa la forma epistolare: il romanzo è scritto sotto forma di lettere inviate da Sir Walton alla sorella. Credibile tanto come nulla; certo è normale che uno scrive lettere di 300 pagine! -_- Comodissimo tra l'altro, a quei tempi, inviare via posta tutte quelle missive! Contando che poi è narrato sempre in prima persona, ma di volta in volta cambia (alle volte è il dr. Frankenstein che parla in prima persona, alle volte è il mostro e altre è Walton), il senso di scrivere lettere va proprio a farsi friggere. Davvero non ne trovo l'utilità, poteva essere tranquillamente narrato in prima persona e tanti saluti.
Ma ciò è un dettaglio, ben peggio è la tecnica narrativa: è quasi tutto raccontato, il narratore si intromette in modo preponderante, lasciando più spazio alle sue riflessioni e mostrando molto poco delle scene "in diretta"; soprattutto non viene mostrata la scena della creazione del mostro, una delle parti più interessanti, per questo lo definisco più dramma che fantascienza, perché di processo fantascientifico ce n'é ben poco, non si sa come venga creato, con quale presunta tecnica/teoria scientifica. Si indaga più il rapporto tra uomo e limite della scienza: un modo di affrontare la fantascienza che a me piace molto; molto di più dello stile spara spara all'alieno, che al contrario racchiude più avventura, sense of wonder, mondi galattici, buoni&cattivi. Qui invece siamo nella riflessione più deliziosamente psicologica da me preferita. Ma questo è un mio gusto, sono entrambe degne di nota. 
Un'altra cosa che al giorno d'oggi non è ammessa, è questo tono così moraleggiante, filosofeggiante; troppe riflessioni esplicite; oggi si possono lanciare dei messaggi, ma devono essere più tipo pubblicità occulta: devono essere fatti intuire al lettore, egli deve leggere tra le righe, deve intuire il messaggio tramite le metafore; spiattellare così apertamente i propri concetti/opinioni/riflessioni è considerato di cattivo gusto e fastidioso.  Poteva farlo solo Umberto Eco, a lui lo si tollerava.


Direi che ho detto tutto. Consigliato? Sì. Non solo per il mito a cui è associato, per le riflessioni morali/filosofiche, che comunque non guastano e dovrebbero far meditare sul valore della carità e della compassione verso chi è diverso, sul senso e le conseguenze delle discriminazioni e del pregiudizio, ma anche per uno squisito esempio di fantascienza di "una volta", che riflette sul rapporto uomo/macchina, uomo/alieno/mostro. Un tipo di fantascienza che non guasterebbe recuperare, riportare in auge, a scapito degli "spara spara all'alieno"! (che non sono molto diversi dello spara spara all'indiano degli Spaghetti Western)
Però mi raccomando non imparate a scrivere come lei eh! :'D

martedì 10 maggio 2016

Dieci piccoli indiani: ovvero il finale perfetto!




Titolo originaleTen Little Niggers
Altri titoli...E poi non rimase nessuno[1]
10 piccoli indiani[1]
AutoreAgatha Christie
1ª ed. originale1939
1ª ed. italiana1946[1]
GenereRomanzo
Sottogeneregiallo
Lingua originaleinglese


Be’, ovviamente non posso dirvi come finisce, ma l’impressione che mi colpì appena lessi l’ultima pagina fu: “Ahh, questo sì che è proprio il finale che avrei voluto leggere!” Il colpo di scena inaspettato che dà soddisfazione, che lascia quel sapore di appagamento totale! Sì perché una pecca, anche degli stessi libri della Christie che avevo letto in passato, era proprio questa: buone premesse, giallo con suspense, tensione, ma poi allo svelarsi delle carte, al dipanamento del mistero, un misero: “Ah” -_- E’ tutto qui? Un po’ come quando vengono svelati i trucchi dei prestigiatori, non so se vi è mai successo, mille congetture, ipotesi più fantasiose e strampalate su quale sia il trucco e su quali espedienti mirabolanti si nascondano, per poi scoprire che il trucco è di una stupidità e banalità impressionanti, della serie: “ah.è tutto qui?”*
Ecco, con “Dieci piccoli indiani” tutto ciò non accade, ma il finale è WOWOWOWWW!!! *_* Cazzo, a questo non ci avrei mai pensato! Che genio quella gran bischerona della Agatha!
Ecco, questo è uno di quei casi - RARI casi, vorrei specificare, non fateci l’abitudine! - in cui anche se i personaggi fossero descritti ad minchiam non importa! La trama di per sé basta e avanza, perché è talmente tanto coinvolgente che non serve null’altro. 
Questa è la trama in breve: dieci personaggi vengono convocati, tutti con differenti pretesti, su un’isola, nella quale rimarranno bloccati a causa di avverse condizioni meteo. Sbarcati e giunti nella villa dell’isola, leggono una filastrocca che parla di dieci negretti che vengono a uno a uno ammazzati in modo diverso. E indovinate? Tutti i membri dell’allegra combriccola cominciano a morire proprio nei modi indicati dalla filastrocca.
Insomma leggetelo! Non aggiungo altro.

ps: lo so che questa recensione è un po’ sottotono e poco approfondita, ma giurin giurello mi farò perdonare la prossima volta!

*= La prima rivelazione sconvolgente fu durante un episodio di Baywatch, dove un prestigiatore doveva ammanettarsi e incatenarsi, tuffarsi in mare e poi riuscire a liberarsi sott'acqua. Qual era il trucco? Teneva la chiave del lucchetto nascosta tra le dita! -_-